teatro e storia

Euripide, il tabù oltre la porta
In Grecia, e dunque alle origini della tradizione teatrale d’Occidente, il teatro nasce in rapporto alle cerimonie di tipo agrario, al culto della fecondità (umana, animale, vegetale). Nasce dai cortei, dalle processioni e dalle danze rituali. Di qui il carattere di apertura che da sempre contrassegna la teatralità classica. Anche quando in Grecia compare l’edificio teatrale, si tratta pur sempre di un’operazione che recinta e delimita uno spazio che continua a restare in qualche modo aperto e che coinvolge – anche fisicamente – attori e spettatori. La cavea, cioè l’insieme delle gradinate dove siede il pubblico, segue da vicino, costeggia e circonda l’orchestra, che è il punto nevralgico del teatro greco, dove operano attori e coro.. Ma l’orchestra è essenzialmente uno spiazzo di terreno, cioè, ancora, un luogo aperto, libero. Come ha scritto opportunamente, Baldry, “era qui che tutta l’azione visibile del dramma si svolgeva, fuori, all’aperto; un ambiente che può apparire strano in regioni più fredde, ma che era del tutto naturale per i Greci, che trascorrevano gran parte della loro vita di ogni giorno all’aperto”1. Non per nulla i Greci non sviluppano il concetto di scena interna, che qualifica il teatro moderno, fondato sulla convenzione della quarta parete. Gran parte dei testi tragici del V secolo a.C. si svolgono in uno spazio esterno. Ma sullo sfondo dell’orchestra sorge però [la in greco], originariamente una baracca dove gli attori si cambiano. Il teatro – che etimologicamente deriva da un verbo greco che significa guardare – sorge dalla dialettica fra qualcosa che è tutto in vista e qualcosa che invece sfugge, che è celato, nascosto. La [in greco] baracca sottrae gli attori al pubblico, ma si impone anche come elemento scenografico neutro, cui si appoggia il profilo stilizzato del palazzo che fa da sfondo solitamente alle tragedie. Gli attori agiscono davanti al palazzo, ma la porta del palazzo apre su un mondo che lo spettatore non vede ma che pure intuisce, perch* una porta – abbiamo detto nella premessa – è sempre qualcosa che chiude, sì, ma anche, che invita ad aprire, a entrare. Nessuna catastrofe avviene mai dinanzi agli spettatori di Grecia, violenze e assassini sono compiuti generalmente fuori scena. Il male è raccontato, mai mostrato. E tuttavia qualche volta è almeno udito, e prorpio attraverso la mediazione fatale della porta. Il dolore è gridato fuori scena, ma si prolunga in qualche modo sulla scena, e come tale è dunque percepito dagli spettatori…
(tratto da Roberto Alonge, Scene perturbanti e rimosse, interno ed esterno sulla scena teatrale, NIS, Roma 1996, p. 15)
1 H.C. Baldry, I Greci a teatro, trad. it., Laterza, Bari, 1999, p,. 70. (english version)


La voce: questa grande assente
di Valentina Valentini
In Italia gli studi in ambito teatrale, smantellata la roccaforte della dominanza del testo drammatico per cui il teatro era considerato un ramo della letteratura, hanno attraversato fondamentalmente la regia, la fenomenologia dell’attore come corpo fisico che abita la scena, l’incontro con le arti visive e il loro esorbitare verso i nuovi media. L’aspetto sonoro dello spettacolo e l’espressione vocale dell’attore come tratto specifico di una espressività che va al di là del proferire un testo scritto, quel territorio che abbiamo identificato come drammaturgia sonora1 è sostanzialmente inesplorato. Ovvero lo spettacolo come spazio acustico nel continuum delle azioni sceniche non ha acquisito dignità di analisi, studio e ricerca. E’ un territorio complesso che include verbalità/vocalità e sonorità nelle loro ramificazioni multidisciplinari e interdisciplinari (musica, canto, testo letterario, dispositivi tecnologici, trattatistica per il canto e la recitazione), il movimento dei suoni concreti e sintetici, prodotti dal corpo, dagli oggetti, da strumenti musicali acustici e elettronici, capaci di innescare e inscenare uno sviluppo della composizione di un atto performativo. […] per questo ampio arco storico privo di documenti sonori, è ipotizzabile tentare di costruire un discorso intorno alla vocalità dell’attore in scena, inserendola in un quadro più ampio di raffronti, a partire dal testo drammatico attraverso le parti dialogiche-discorsive, oltre che attraverso le didascalie, confrontando le prescrizioni specifiche dei trattati di recitazione, prendendo in esame i metodi teorizzati e praticati dai vari studi, scuole, maestri, le teorie elaborate su tali questioni in ambito filosofico, linguistico, musicale, antropologico. Allo stesso tempo è necessario inserire le pratiche della voce in un contesto più ampio, rappresentato dai metodi/non metodi di figure di formatori quali, ad esempio, Iris Warren, Cicely Berry, Jurij Alschitz, Kristin Linklater, dalle teorie sulla voce che si possono enucleare dalla lettura delle opere teatrali dei drammaturghi secondo-novecenteschi (Samuel Beckett, Peter Handke, Jack Gelber e altri), dalle riflessioni filosofiche e teoriche (Roland Barthes, Jacques Derrida, Paul Zumthor, Adriana Cavarero) e artistiche in senso lato, a cominciare da quelle dei compositori e dei musicisti del secondo Novecento (John Cage, Luigi Nono, Luciano Berio, Karlheinz Stockhausen).
(tratto da Perchè di te farò un canto, pratiche ed estetiche della vocalità nel teatro di Jerzy Grotowski, Living Theatre e Peter Brook, di Mauro Petruzziello, Bulzoni Editore 2018, pag.13-14, Introduzione)
1 Cfr. 1 V. Valentini (a cura di), Drammaturgie sonore. Teatri del Secondo Novecento, Bulzoni, Roma 2012


Del tiro dell’arco
presentazione di Fausto Malcovati
La Duse e la Callas; due magnifici esempi di Biomeccanica. La Duse nell’ultimo atto della Dama delle Camelie legge la lettera di Armando. L’ha in mano, la sa a memoria, non ha bisogno di leggerla. Lentamente stacca gli occhi dal foglio, guarda davanti a sé, abbassa la mano continuando a recitare il testo. Il braccio scende lungo il fianco con lentezza, il testo finisce esattamente quando il braccio è disteso. La Callas nel terzo atto di Medea si prepara ad uccidere i figli. Durante il monologo che precede l’omicidio, “E che? Io son Medea e li lascio in vita?”, afferra il manto stringendo i pugni, li solleva lentamente all’altezza del volto, poi distende il braccio destro verso il pubblico, in modo da concludere il gesto con la frase; “Rendi il pugnal, il pugnal rendi a me”. In fondo la biomeccanica è anche ( io aggiungerei soprattutto) questo: raggiungere una perfetta sincronia tra espressione verbale e gestuale, una perfetta corrispondenza tra ritmo, senso della battuta e ritmo del corpo che la dice. Come si sa, né Mejerchol’d, inventore del termine, né i suoi collaboratori e allievi scrissero mai un vero manuale di biomeccanica a uso dei contemporanei e dei posteri, come invece fece Stanislavskij con il suo Metodo (pur terrorizzato all’idea che i suoi scritti fossero usati come elenco di formulette usa e getta). Dunque in realtà, anche se esistono documenti, stenogrammi, appunti, schemi, memorie, la Biomeccanica rimane un oggetto non codificato, misterioso. Misterioso per due ragioni: la prima perché, dopo l’arresto e la fucilazione di Mejerchol’d, per trent’anni nessuno ha più potuto né parlarne, né tantomeno praticarla. La seconda, in parte conseguenza della prima, perché oggi nessuno riesce a capire come Mejerchol’d coniugasse il tiro con l’arco o il salto al petto con la Signora delle camelie o Che disgrazia l’ingegno! Ossia in che modo e fino a che punto la perfetta esecuzione degli esercizi che il regista faceva praticare ai suoi attori, li aiutasse nell’interpretazione del personaggio. (tratto da Biomeccanica teatrale di Mejerchol’d, idee, principi, allenamenti di Claudio Massimo Paternò, Dino Audino Editore, 2017, pag. 9)


Pedagogia dell’azione teatrale in Russia
di Massimo Lenzi*
[…] queste dunque, almeno a mio avviso, le principali circostanze diacroniche entro cui ricercare le cause dell’insorgenza di quelle specificità identitarie che da sempre contraddistinguono il paradigma del teatro russo, – paradigma che ipotizzo possa articolarsi nei punti seguenti:
a. Organicità tra sistema di formazione e sistema di produzione dello spettacolo teatrale, dovuta all’anomala e persistente natura monopolistica del modello importato, in virtù del quale ogni soggetto della produzione teatrale da sempre implica ed include – a vari livelli – istituzioni formative, in palese difformità dalla natura episodica e al limite (come in Italia) affatto volontaristica dei contesti e dei criteri secondo cui altrove sorgono le “scuole teatrali”, ed in non meno manifesta conseguenza dell’inclusione a pieno titolo nell’organismo statale dei teatri, agguagliabili – con tutte le implicazioni negative e positive – a ‘uffici’ sui generis;
b. Dignità intellettuale del teatro, da sempre integrato nel sistema dell’istruzione superiore, universitaria e post-universitaria, né gravato da pregiudizi istituzionalizzati di implicita subalternità rispetto ad altre sfere dell’attività culturale, artistica e sinanche scientifica, e come queste incluso senza scandali né riserve nella sfera sociologica entro cui l’opera intelligent: termine che, assai più estensivamente (e meno ambiguamente) del nostro ‘intellettuale’, sta a designare chiunque eserciti un lavoro non prevalentemente manuale; sotto questo riguardo, particolare prestigio riveste la figura dell’attore, che in Russia da sempre è percepito non come ambiguo abitante di una terra di nessuno tra ‘realtà’ e ‘finzione’, bensì come intelligent necessariamente provvisto di un valore aggiunto – valore a un dipresso traducibile nella virtù di mettere in gioco tutto il proprio essere psicofisico nella connessione e comunicazione dei nessi tra percezione fisica ed esperienza spirituale;
c. Precoce egemonia del teatro di regia, non tanto scaturita da una affermazione particolarmente vigorosa di quella reazione al teatro d’attore ottocentesco (sostanzialmente estraneo, come abbiamo visto, alla cultura teatrale russa coeva) che altrove condusse a processi conflittuali, ondivaghi e di lungo (in Italia letteralmente interminabile) periodo, quanto invece da un’organica evoluzione della figura del regisseur, da sempre necessariamente associata ai teatri in virtù del modello importato; ne consegue, tra l’altro e soprattutto, la radicale difformità della figura del regista-pedagogo russo da quella così denominata in altre culture teatrali sotto almeno due riguardi: 1) la sua natura istituzionale (in sostanza, la mansione del regisseur = rezisser in Russia ha sempre incluso anche compiti pedagogici), 2) il fatto che il regista, essendo necessariamente pedagogo, è anche necessariamente pedagogo di registi6;
d. Principio dell’ensemble attoriale come modello da sempre vigente nella formazione delle troupes drammatiche dei teatri per definizione ‘stabili’, in radicale contrapposizione al sistema gerarchico dei ruoli organico alle compagnie di giro (così, ad es., le troupes dei Teatri imperiali erano agguagliabili a una sorta di all-stars, e la corrente produzione drammaturgica straniera ottocentesca doveva di norma subire sostanziali rifacimenti strutturali nelle traduzioni per la scena russa);
e. Autonomia e preminenza di quello che può essere definito testo scenico rispetto alla pagina scritta, secondo il principio originario dell’obraz, termine con cui si trovò naturale sin dall’inizio designare in sede critica e descrittiva il risultato visibile (primo significato di obraz è infatti quello di ‘figura’, ‘immagine’) della performance drammatica scenica, distanziandolo implicitamente sia dall”attore’ che dal ‘personaggio’, e indicando così una intrinseca vis sintetica nella percezione e nella valutazione della peculiarità più intrinseca che contraddistingue qualsiasi azione teatrale-drammatica, ovvero la reciproca e vincolante referenzialità fenomenologica tra una facies fisica ed una,per così dire, virtuale – tanto che nel corso del XX secolo questa parola d’uso comune è venuta ad assumere il rango di concetto-chiave della teoria della prassi teatrologica russa, sin dalla sua propedeusi pedagogica7;
f. Assenza di una dicotomia fra corpo e parola, risultante in una sostanziale inversione del rapporto tra questi due termini solitamente riscontrabile nelle altre culture teatrali; laddove cioè nelle più diverse epoche e latitudini il corpo dell’attore drammatico è stato ed è prevalentemente percepito come funzione della parola scritta, strumento della sua attuazione, nel migliore dei casi complesso espressivo chiamato precipuamente o esclusivamente a darle dimensione e valore ‘reali’ ovvero, purtroppo più spesso, mera escrescenza carcerata ai suoi ceppi[nota 8], – l’attore russo, ancor prima di entrare in eventuale contatto con questo o quello stile registico (concetto peraltro assai distinto da quello nostrano di ‘interpretazione’)[nota 9], è educato ad una prassi ove la parola, quand’anche pedissequamente corrispondente al dettato dell’autore[nota10], è sempre e comunque quella proferita in scena, ovvero una funzione del proprio corpo, un suo mero momento, l’eventuale integrazione o compimento di una presenza performativa che non può non realizzarsi altrimenti e secondo norme prevalentemente non riconducibili al ‘significato’ della parola scritta.

* Massimo Lenzi Docente di Discipline dello Spettacolo del DAMS di Torino
6“Beninteso, la principale differenza della struttura stessa della formazione teatrale è pienamente evidente a chiunque: soltanto nel nostro paese esiste la concezione di un insegnamento sistematico e coerente della regia [teatrale] […] Dato che la regia là non s’insegna, è pienamente naturale che ad allestire uno spettacolo sia o un ex.attore, che sia giunto in modo spontaneo e intuitivo ad un certo livello di comprensione di un testo drammaturgico, oppure un laureato, che in precedenza si è specializzato in ricerche filologiche, letterarie, e adesso decide di provare ad pplicare queste conoscenze ad una prassi” (Sergej Isaev, La formazione teatrale: una scuola professionale o un’università?, in AA.VV., Frammenti di un discorso sullo spettacolo. Per Roberto Tessari, Edizioni del DAMS di Torino, Torino 2003, p.254)
7 Cfr., ad esempio, V.V. Ivanov (a cura di), Akter, Pesonaz, Rol’, Obraz, LGITMiK, Leningrad 1986 (un manuale propedeutico all’esame d’ingresso all’Istituto Statale di Teatro, Musica e Cinematografia N. K. Cerkasov)
(tratto da Lezioni di Movimento Scenico, di NIkolaj Karpov – Altre Visioni 33, Titivillus Edizioni 2007, pag. 11-14)


Cos’è il teatro – Lezione 1 – Omaggio a Carmelo Bene
di Carmelo Bene (trascrizione da video di Alfredo de Venuto)
[…]…ben altro su quello che fino ad oggi, da sempre, è spacciato sfrontatamente per teatro…cioè confondendosi magari con lʼintrattenimento e sopratutto negli ultimi, negli ultimi…nellʼetà moderna, negli ultimi quattro secoli, cioè da Shakespeare in poi, escludo Marlowe…e allora io mi chiedo, qui e non qui, di giorno e di notte e me lo sono sempre chiesto…prima di occuparsi di teatro, perché non ci si può occupare di teatro, sarebbe come chiedere ad un vivente: “Scusi lei di cosa si occupa?” e il vivente rispondesse “Mi occupo della vita”. Mah! Allora lʼaltro replicherebbe: “Eʼ normale. Anchʼio. Tutti ci occupiamo della vita. Tutti viviamo. Se vivere vuol dire occuparsi della vita” Beh, non mi pare una coincidenza abbastanza generica, generale, comune. No, infatti ci sono occupazioni umane, subumane o disumane di lavoro. Cʼè per esempio, questa è la maggior parte, della gente che occupa un posto di lavoro, cʼè della gente, questa un poʼ più rara, che lavora, senza un posto di lavoro, cioè non lo cerca, cioè non lʼha mai cercato, e anche gliene offrissero migliaia, li rifiuterebbe. Come la battuta di un nobile veneto, un conte, che ha un ristorante prediletto, possiede varie ville venete e lì parlando con Ruggero Orlando, anni or sono sentiva i camerieri parlavan di scioperi, di cose. Gli dissi di cosa…no, no parlan di scioperi, disse Orlando, il padrone non acconsente, non consente certe diminuzioni orarie, lavorative…ecco allora, spiegava cosʼè lo sciopero…perché il lavoro…perché loro fan parte del mondo del lavoro…questo se ne uscì fuori, insomma il conte, veramente attonito, esterefatto. Da questo racconto del mondo del lavoro, del posto di lavoro, dimensione della vita quotidiana insomma: “Lavorare! Ah! Saria beo! Averghene il tempo“. Ecco, lui non aveva tempo…per lavorare. Questo è il lavoro. E appartiene quindi a quella non categoria di persone che si occupano del lavoro. Nei posti di lavoro, la faccenda, appunto, è tutta unʼaltra. Quindi gli addetti al lavoro, sono gli addetti, per tornare a monte, a qualcosa di specifico. E anche il teatro che, non essendo, partiamo da un presupposto, non essendoci mai stato, non essendo mai esistito…mi spiegherò subito dopo…un teatro o il teatro, eppure lʼetà moderna sopratutto è tempestata, e quella contemporanea non ne parliamo, e quella attuale…non ne parliamo nemmeno. Ecco, pullula di addetti a che cosa?…al teatro. Ma il teatro non può avere addetti, non essendoci stato e non essendoci… (continua)


Kim e il suo lama tibetano
di Eugenio Barba
…Non scrivo per trasmettere, ma per restituire. Perché mi è stato dato molto. Ho avuto dei maestri, che non sapevano né volevano essermi maestri. La maggior parte di loro erano già morti quando sono venuto al mondo. Nelle loro parole, coincidenze ed equivoci hanno favorito la scoperta di una conoscenza che mi ha guidato verso me stesso. Scrivendo, so che simili coincidenze si verificheranno per alcuni dei miei lettori. Ma non è questa speranza a spingermi. E’ qualcosa che debbo fare anche se ho mille ragioni per oppormi. Lo ritengo un dovere. Sono semplicemente in debito. E non voglio andarmene lasciandomi dietro dei debiti. So che il teatro mio e dei miei compagni è stato un teatro anormale. So che coloro che leggeranno senza aver mai visto i nostri spettacoli, riterranno astrusi o incomprensibili molti dei miei esempi. So che perfino gli obblighi professionali elementari, quelli che sono stati alla base del nostro lavoro all’Odin Teatret, appariranno imposizioni incongrue o esagerate a molti di coloro che fanno teatro o che intendono dedicarcisi. Si chiederanno come mai a noi siano parse condizioni assolute su cui non potevamo transigere. Forse intuiranno che la speranza di un buon risultato artistico non basta a spiegare e a motivare l’impegno vhe abbiamo messo nel mestiere teatrale. Non è normale un teatro che fa spettacoli sempre con le stesse persone, sempre con lo stesso regista, per il tempo d’una vita. Ora,, mentre scrivo, lo facciamo da 44 anni. Non è normale, ma non è un handicap. Abbiamo lottato, e continuiamo a lottare, per non diventare prigione a noi stessi. […] Eravamo un’isola. ma non siamo mai stati davvero isolati. Neppure nell’apparente solitudine dei primi mesi, nel 1964. Ciò che separa un’isola dall’altra è il miglior mezzo di comunicazione, Dove non c’è il mare – che unisce e separa – la comunicazione può diventare ambigua e faticosa. Ne consegue che occorre tracciare un cerchio e chiudercisi dentro con costanza e intransigenza, per poter degnamente entrare in contatto con un mondo vasto e terribile, come dicevano Kim e il suo lama tibetano. Capirlo è facile, quasi ovvio. Ma quando proviamo a farlo, rischiamo d’oscillare continuamente tra la megalomania e l’auto-commiserazione. Da questo punto di vista non vi è grande differenza se il cerchio è costituito da una tradizione consolidata e definita attraverso l’apporto di molte generazioni, riconosciuta dagli spettatori. O se invece è una “piccola tradizione”, nata dall’intreccio d’un numero esiguo di biografie e d’esperienze condivise. E’ la tradizione d’un pugno di persone e che sparirà con loro, come svanisce il pugno quando si apre la mano. (tratto da Bruciare la casa, origini di un regista di Eugenio Barba – Ubulibri, 2009, pag. 11-12)


Edipo Re e Amleto
Edipo Re, all’inizio della tradizione, e Amleto, alle soglie del mondo moderno, sono stati via via considerati fallimenti artistici e capolavori supremi. Essi sono le sfingi della letteratura, con la sconcertante proprietà di confondere tutti coloro che intendono interpretarli. Nondimeno, l’istinto che guida gli studiosi del dramma (e, in realtà, dell’intera tradizione) a riesaminarli continuamente, è giusto. Misteriosi sono e misteriosi resteranno; ma noi possiamo scorgere come essi rispecchino la vita e l’azione umana, e tanto l’una che l’altra con immediatezza straordinaria e da molti punti di vista simultanei, cogliendo la creatura nell’atto preciso dell’ inventare quelle razionalizzazioni parziali che formano la sostanza completa di drammi minori. In breve, essi costituiscono le origini e i confini che una ricerca di questa specie non può evitare. Se esiste un’arte drammatica autonoma, non derivata da arti e filosofie più evolute ma basata su un senso della vita squisistamente immediato (uniquely direct), allora Edipo Re ed Amleto ne sono esempi decisivi. […] Amleto come ho accennato, è alle soglie dei tempi moderni, e ci tocca in modo particolarmente intimo. Ma molti studi recenti han dimostrato che il teatro elisabettiano non aveva completamente rotto i ponti col Medio Evo; era, come le forme più antiche del teatro medioevale, popolare, tradizionale e rituale. In parte per questa ragione viveva ancora in esso la tradizione greca. I drammi di Shakespeare rieccheggiano Platone e Aristotele in mille modi – nell’ordine sociale e morale che presuppongono, nel loro realismo, e nel contatto che rivelano col pensiero sposnaneo della comunità; nonché nella loro regia, strettamente affine alle forme drammatiche dei dialoghi di Platone. Pongo quindi Amleto come parallelo ad Edipo Re; non già derivazione idealizzata dei principi greci […], ma come un capolavoro più tardo, più elaborato e più scettico nel seno della stessa grande tradizione. “La tragedia,” dice Aristotele pensando a Edipo Re, “è l’imitazione di un azione.”
(tratto da Idea di un teatro, di Francis Ferguson – Feltrinelli, 1962, pag. 9-10)


Artaud e Bene
Il furore Antonin Artaud è un assalto selvaggio (e, al contempo, lucidissimo) verso qualsiasi pratica espressiva, nel desiderio di ripensare in blocco i processi creativi e comunicativi. Nel tempo gli saranno necessari: il peyotl. Lewis Carroll, la catastrofe delirio, il “bardo-poeta” che si sostituisce a dio, l’intero annichilimento dell’universo, la percezione del divenire, la lotta contro la forma più dura del giudizio, quella psichiatrica, lo sviluppo del sistema della crudeltà, scontri tra potenze, conflittualità continua. Tutto per mirare alla Nouvelle révélation dell’Etre[nota]. Non appagamento dell’essere, ma rivolta.[…] parlare di Artaud non può che essere un atto radicalmente politico, una rivolta costante[…] Fondamentale diventa allora mostrare il forte legame tra Artaud e Carmelo Bene, schierati per il divenire e contro la Storia […] “Sulla superficie dell’essere, con Antonin Artaud e Carmelo Bene, non c’è più nulla da rappresentare e nessuno più che rappresenti”. Artaud è spasmodica ricerca delirante e pienissima che ci porta in un deserto dove la sete di sangue ci brucia, tra il baratro e il nulla. La sua scrittura genesiaca è continua riflessione sugli statuti della rappresentazione, il suo linguaggio fatto di parole-soffio. poesia, teatro e peste assieme. Così André Breton ricorda il giovane Antonin nella commemorazione funebre: “Era da poco che Antonin Artaud si era unito a noi, ma nessuno più spontaneamente di lui aveva messo al servizio della causa surrealista tutti i propri mezzi, e questi mezzi erano grandi […] Forse era in conflitto ccon la vita assai più di tutti noi. Molto bello, come era allora, quando si spostava, portava con sé un paesaggio da romanzo nero, tutto trafitto da lampi. Era posseduto da una specie di furore che non risparmiava, per così dire, nessuna delle istituzioni umane, ma che poteva talora risolversi in una risata in cui passava tutta la sfida della giovinezza”. Un furore che lo spingerà verso il cinema, il teatro, le arti, la radiofonia, la filosofia, il pensiero, l’ateismo, la bellezza, il dolore, la solitudine, l’allegoria, la follia…cardini che vogliamo sempre ritrovare negli slanci creativi (e teorici) del nostro tempo presente e nello straziante destino di chi ha voluto ripensare il mondo, ingaggiando una dura battaglia contro il capitalismo, i manicomi, la borghesia, il linguaggio, la famiglia.
(tratto da l’Introduzione de L’insorto del corpo – Il tono, l’azione, la poesia – Saggi su Antonin Artaud, a cura di Alfonso Amendola, Francesco Demitry, Viviana Vacca – Ombre Corte/Culture, 2018, pag. 7-8)